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16 luglio 2013

(37) A ROMEA DE ITALO ER FOSCO


(37)
12/07/13

 
È difficile fare una poesia che spieghi come siamo noi, come sono solo loro, e non farla banale. Credo di esserci riuscito come con “Na squadra co’i colori der cielo”. Qui c’è, in parte, la spiegazione del perché i nostri padri non si vollero chiamare con il nome della nostra città  e come loro l’abbiano voluto fare non essendo romani….. “cascannoce co’ tutte ‘e scarpe”.

 

A ROMEA DE ITALO ER FOSCO

 

Come se chiamano quelli che cor loro brutto grugno

de ‘e donne innamorate spezzano sempre er sogno?

De chi, aprofittanno de un core granne così,

le manna a batte pe’ strada tutto er santo dì?

 

Quanno se parla d’amore ce vole rispetto

se pe’ na persona c’hai der vero affetto,

e si nun voi fa ‘a fine de li granni ruffiani

nun metti l’amore tuo a rincorre  ner campo tutti quei palloni.

 

E così, infanganno ‘na città granne come nessun’artra mai,

co ‘e ridicole partite che solo tu giocare sai,

er nome de Roma nun l’hai lassato  ‘n pace,

omo ridicolo vestito solo de nera orbace

 

Ventisett’anni ha retto la tentazione

de da’ a Roma nostra ‘sta brutta nominazione,

poi sei arivato tu, coropolese puro puro,

a ‘nfragne  ‘sto rispetto che se sperava imperituro.

 

Tu, che Roma vera hai sempre odiato sotto sotto,

pensavi co’ st’idea d’ave’fatto ‘n ber filotto

e odiando,  da buro puro, ‘a storia granne de ‘sta granne città,

t’eri ‘nventato, contento, nella porvere de falla giocà.

 

Spacciannote pe’ romano hai  arimediato ‘n sacco  de figuracce

dar Liverpool, cor rigor de Dio, pe’arivà ar piccolo Lecce,

ma nun capenno gnente, e tutto per corpa tua,

le figuracce nun l’ha fatte mai Roma ma ‘a  Romea, ‘a sola squadra tua.

 

                                          Decimo

 

Ma in questi tempi il laziale cammina a due metri da terra,  per il laziale è sempre poesia,  e quindi  pure la poesia continua…..

 

….. a poesia non finisce mai p’er laziale

ch’ ha visto dei romatristi er funerale,

e ripensanno bene a quanto detto già

aggiungo solo ‘sta cosettta qua.

 

Chi ama Roma mai la porterà

sui campi de pallone  tanti schiaffi a pijà,

e volenno da’ a  Roma un  nome olimpico, internazionale

l’ha chiamata cor nome de li padri sua, l’antico popolo laziale.

 

                      Decimo

 









 

 

 

08 luglio 2013

(36) A PROPOSITO DI CUPOLA MAFIOSO GIORNALISTICA PRO GIALLOROSSI A ROMA.


N.36
07/07/13
 

     In tutte le scuole per investigatori si insegna non solo che un indizio non deve essere necessariamente  una prova di colpevolezza ma anche che molti indizi fanno al contrario un colpevole certo. I fatti. C’è a Roma una vera e propria cupola simil mafiosa che nelle redazioni dei giornali romani, e forse non solo, sottace, quando può, notizie che possono mettere in risalto le azioni sportive della ss.Lazio, anche quelle passate, per evidenziare a dismisura qualsiasi cosa faccia la Roma, forse per esaltare quella capacità di una parte della città, quella che non ricorda di far parte di una storia “…..che tante battaje ha vinto e tante perso….” che è pronta “ad abboccare” a qualsiasi cosa, anche quando chi scrive su quei giornali peperonisti più che esaltarli sembra prenderli, inconsciamente o meno,  in giro ( a Roma se dice co’ artre parole).

 

      Clamoroso, evidente, in merito a quanto asserisco, è il titolo del Corriere dello Sport di sabato 15 settembre 2012. Quel  “In centomila per la Roma” in cui  giornalisti di parte (ma qualche dubbio che sia stato fatto da un laziale, per “perculeggiare”, mi rimane) esaltano la credulità innata in chi è venuto “da fora”. Moltiplicare, meglio sommare gli spettatori di un partita con quella successiva, peraltro ancora da giocare, ha del miracoloso. Gesù con la sua moltiplicazione dei pesci per poche persone a loro confronto era un dilettante, loro sono riusciti a moltiplicare 50.000 spettatori, sempre gli stessi, facendoli diventare 100.000.

 

     Gli stessi giornali romani, compreso quello sportivo, volutamente tacciono una gravissima spedizione punitiva, a mo’ di black blok, effettuata nel dopo derby del 16 ottobre 2011, da un centinaio di tifosi romanisti e per questo fanno di questo episodio una delle pagine più vergognose scritte da sedicenti giornalisti che, più che scrivere su giornali democratici, sembrano essere dei velinari di regime al soldo del rinato Minculpop in versione giallorossa. Negare questo incredibile episodio di violenza è criminalmente più grave di coloro che lo hanno perpetrato, anche perché così facendo chi la pratica si sente protetto, coccolato, e per questo voglioso di reiterarla. Questo hanno fatto colpevolmente i quattro dell’Ave Maria (la Repubblica, il Corriere dello Sport, il Messaggero e il Tempo).

 

     Altre chicche. L’allenatore più vincente di tutti i tempi, sir Alex Ferguson, dichiara che il suo più grande rammarico è aver perso nel 1999 la Super Cup europea contro la Lazio, a suo parere allora la squadra più forte del mondo e loro nulla, devoti pennivendoli cantori esclusivi del progetto grande Corropolese, che ha portato alla creazione della squadra della parrocchietta, lì senza scrivere una riga.  Eppure non c’è da fare corsi di marketing per comprendere che in una città come Roma che vive di dualismo dai tempi degli Orazi e dei Curiazi, una notizie del genere sarebbe sale, e molto copioso, per le vendite. Per la loro fede vanno contro gli interessi dei loro stessi giornali.

 

     Nell’ultimo derby del campionato primavera la partita viene sospesa dall’arbitro, anche se solo per pochi minuti, invitando il capitano della Roma a far zittire i  propri tifosi con i loro fischi razzisti contro il giocatore della Lazio Tounkara, pena la sospensione definitiva della partita, e i quattro dell’Ave silenti, senza più inchiostro. So benissimo, da laziale, che alcuni gruppi che certo non si richiamano agli ideali olimpici per i quali la Lazio è nata, praticano, hanno praticato i buu razzisti in maniera altrettanto vergognosa, ma dei loro comportamenti si parla, e giustamente, in tutte le salse, e quando lo fanno i romatristi la cosa viene invece silenziata. La notizia, che i quattro dell’Ave non pubblicano, viene al contrario pubblicata dalla Gazzetta dello Sport. Il giornalista velinaro fa le pentole ma non  i coperchi.

 

     Mi fermo anche se gli episodi sono innumerevoli ma credo che per il senso di sportività innata che accompagna chi è laziale, chi è vero laziale, non si può premiare ex equo questi benedetti  quattro dell’Ave Maria. Bisogna dare un primo premio. Per la verità, con l’episodio che mi accingo a descrivere, non avendo letto i quotidiani Tempo e Messaggero, posso solo fare una classica parziale, solo tra la Repubblica e il Corriere dello Sport, e debbo dire che il quotidiano di via Solferino ha stravinto alla grande la medaglia d’oro sul giornale più simil mafioso cupolaro giallorosso di Roma. Di seguito l’episodio che ha fatto stravincere la Repubblica.

 

     27 maggio 2013, la Lazio il giorno prima aveva vinto il derby di coppa Italia. Il Corriere dello Sport parla della vittoria della Lazio e di scontri provocati da tifosi romanisti, con i titoli che descrivono, anche ai lettori più distratti, come si sono realmente svolti i fatti. E invece guardate cosa ha scritto nei titoli, nei sottotitoli e nella didascalia a commento delle foto, il signor Gabriele Isman su la Repubblica di Roma. Titolo: “Coppa Italia, festa biancoceleste in centro. Raid in via Cavour, auto distrutte, tensione al Colosseo, due fermati”. Sottotitolo: “In quindicimila a piazza del Popolo. Balli  e fuochi d’artificio”. Didascalia delle foto: “ Polo della festa piazza del Popolo ma caroselli e cortei biancocelesti in tutta la città. Tensione solo tra via Cavour e il Colosseo per alcune auto distrutte.

 

     Dove si evince, da queste cose, che le violenze sono state praticate esclusivamente da qualche centinaio di tifosi giallorossi che hanno  metodicamente assalito tifosi laziali, famiglie di tifosi laziali in festa? Il signor Ismail sa, come tutti i giornalisti, che molte persone leggono dei giornali solo i titoli, soprattutto se l’argomento interessa poco, e nei titoli di questo articolo è facile pensare,  per chi non conosce i fatti che gli scontri siano stati provocati dagli stessi che facevano festa.

 

     Non ho altro d’aggiungere. Cito solo un grande personaggio di Roma che nella sua grandiosa semplicità, che riesce solo alle persone eccezionali, a chi gli chiedeva di che squadra fosse, con naturalezza rispondeva di essere laziale perché ai suoi tempi c’era solo la Lazio. E proprio omaggiando la  Elena Fabrizi, la famosa Sora Lella, in riferimento a questo derby di coppa Italia che ne vale cento, vi saluto con una sua frase di risposta al nipote nel film Bianco Rosso e Verdone: “ Nonna, nonna, m’hanno fatto ‘n bono, che vor dì? Vor dì che…..” , “Vor dì che te la piji ‘n der culo”. e siccome è plurale maiestatis, pardon plurale cupola cupolorum traduco:”Vor dì che ve la pijate ‘n der culo”, pe’ sempre.

 

                                                                           Decimo

 
    

 

    

02 luglio 2013

(35) ESSER LAZIALI NON SARA’ MAI ESSER SOLO ANTIROMANISTI, E’ MOLTO DI PIU’. ESSERE LAZIALI E’ UNO MODO DI VIVERE, E’ UNO STATO DELL’ANIMA.

(35)
1 luglio 2013



 

  La Società Podistica Lazio nacque per volontà di nove ragazzi di Roma che per poter correre gare podistiche, sport che amavano, si sarebbero dovuti iscrivere obbligatoriamente ad una società sportiva e loro, ragazzi del fare, capitanati da Luigi Bigiarelli, decisero che avrebbero corso per una società da loro fondata. Così nacque la Lazio, la Società Podistica Lazio. I nove decisero di fondarla richiamandosi agli ideali de coubertiniani della prima olimpiade moderna che si era svolta solo 4 anni prima. I giochi olimpici si svolgevano nell’antichità ad Olimpia in onore di Zeus, e nei giorni in cui si gareggiava si sospendevano anche le guerre (tregua olimpica). Tutti gli uomini liberi potevano partecipare alle gare al di là del loro credo religioso e del loro censo. Con il termine di Olimpiade si intese rappresentare la distanza di quattro anni tra due giochi olimpici.  

     La nascita della Olimpiade moderna, voluta  come detto dal barone Pierre de Coubertin esaltò ancora di più lo spirito di fratellanza e di sportività universale.  Resta famoso il detto :”L’importante  è partecipare, non vincere”. I nove ragazzi decisero, con la creazione della loro società, di andare straordinariamente controcorrente. In un’epoca di nazionalismo “patologico”, dove milioni di persone con gli stessi ideali, con gli stessi interessi, con la stessa religione, si trovarono a invocare Dio, Patria, e Famiglia, per uccidere persone che la pensavano come loro ma che parlavano soltanto una lingua diversa, per la gioia del mercante di cannoni di turno, per andare poi a morire, con la prima guerra mondiale, per conquistare e perdere 30 metri di trincea, ogni giorno, per 5 lunghi anni, loro, quei nove ragazzi, fecero altro. Decisero appunto, all’alba di quei tempi bui, di richiamarsi al contrario agli ideali sovranazionali e universali delle olimpiadi, a quegli ideali che affratellano i popoli, e di prendere come colori sociali i colori del bianco e del celeste che erano i colori della Grecia (orrore per ogni nazionalista), nazione dove i giochi olimpici erano nati  nel 776 a.c., e tornati in auge con la prima olimpiade moderna del 1896.

     Per inciso, e cosa di non poco conto, il bianco e il celeste sono anche i colori del cielo e degli uomini liberi, quelli uomini che riescono a pensare, sognare, agire, oltre il limitato orizzonte in cui si rinchiudono da soli gli altri, gli uomini delle tnebre. La massa informe che non riesce ad andare oltre il ridicolo e ristretto panorama offerto dal proprio naso. Quelli senza sogno e senza pensiero che non riescono ad essere altra cosa dalla squadra della “parrocchietta” che li rappresenta mentre ripetono beonamente il loro stupido mantra: “ Il mi su de Milan e so’ del Milan” a cui fa il verso l’altrettanto ridicolo e limitato “Io so’ de Roma (così chiamano tra di loro Corropoli) e so’ da roma”.

     Questo è ciò che ci accomuna ai nostri padri. Ma ho la sensazione che qualcuno travisi questa storia. Se la si stravolge, anche in particolari apparentemente insignificanti, si corre il rischio che ogni singolo tassello di questo stupendo puzzle non vada al proprio posto e non risplenda di quell’amore, di quella luce che la storia della Società Podistica Lazio si merita.   

     Andare sulla tomba del nostro fondatore per omaggiarlo con la coppa di Maggio, vinta nel derby dei derby, è bellissimo, ma dichiararlo il fondatore della ss. Lazio è a mio parere sbagliato, e non di poco. Lui ha fondato la Società Podistica Lazio, con tutto quel che ne consegue a cascata sugli ideali che la videro nascere. Altra cosina. Ognuno nella sua vita è un’insieme di cose, anche apparentemente contraddittorie. Ma spesso uno migliora, cambia, anche per le esperienze vissute. Considerando che Bigiarelli non volle mai essere presidente della Società podistica Lazio, per aver in quegli inizi del 1900 considerato la nuova società una società di liberi e di uguali, una foto che lo ritraesse da civile e non come militare, con tutto quel che è insito, gerarchicamente parlando in una uniforme, no?





 

   Oltretutto scusate, ritornando a cosa fu fondato da Luigi Bigiarelli e altri 8 ragazzi, chi avrebbe il coraggio di dire che Romolo fu il fondatore dell’impero romano, solo perché a noi piace ricordare quel particolare, glorioso periodo della storia di Roma? La leggenda dice che il laziale Romolo, con il fratello gemello Remo, fondò Roma,  ed è  la loro grandezza, punto. L’impero  venne più tardi, 726 anni dopo.

     Purtroppo vedo gente tifosa della squadra di calcio ss. Lazio, e non laziali “dentro”, che hanno comportamenti in tutto o in parte uguali a quello dei loro cuginetti romanisti. Io sono laziale e non ho né mi sento cugino di nessuno, a maggior ragione di coloro che Roma accolse da pellegrini, da romei, nel 1927 e che,  con la faccia tosta che li connota  da sempre, non conoscendo la storia, ogni tipo di storia, pensarono di  farsi romani, accusando da quel momento i romani della Lazio di essere burini, e riuscendo solo ad essere quegli esseri boriosi e tristi, fanfaroni e casinari, che noi conosciamo. Per questo gradirei che anche ai massimi livelli societari ci si ricordi della Società Podistica Lazio e degli ideali che l’hanno vista nascere. C’è sempre tempo per parlare di calcio, di 4-3-2-1 o di 4-3-3 o di un due tre e tutti giù per terra, ma ogni momento è buono, deve essere buono, per ricordare i nostri ideali di vita e di sport che, in una ricerca parossistica di motivazioni  antiromaniste, non possono né devono essere dimenticati, nè snaturati, per non veder stravolto il nostro stesso essere laziali.

    Noi abbiamo portato il calcio a Roma? E questo deve essere l’unico motivo del nostro vanto? Io da laziale, e quindi l’antitesi del tifoso passionale e culo mollo, che si fa bello del sudore e delle fatiche degli altri, dico che il merito principale della Società Podistica Lazio è quello di avere portato lo spirito olimpico a Roma, e in Italia, e noi purtroppo sappiamo che non parlandone mai in abbondanza, spesso sottacendoli, quegli stessi ideali che ci hanno visto nascere possono essere traditi da chi non ha capito bene la storia della società di cui si dichiara tifoso, o nella quale fa il giocatore a pagamento. Noi non potremmo mai essere i Rugantini vigliacchi e pavidi, pronti a schernire gli avversari dopo una loro sconfitta. Il laziale non sarà mai colui che aspetta mesi, anni, con la maglietta che irride, vigliaccamente coperta, per poterla esibire in un derby vincente che tarda da tanto tempo a venire, perche noi appunto siamo laziali e gli altri non li irridiamo, noi giochiamo a pallone e  gli avversari li affrontiamo sfidandoli a viso aperto, rispettandoli. Ma questo comportamenti antisportivi  comunque giustificabili se praticati dai foresti romei che vollero farsi romani, non lo saranno mai per chi si spaccia per laziale non essendolo. Resta, fatto non da poco, che la Polisportiva Lazio è la più grande polisportiva europea (e forse mondiale) con ben 44 discipline praticate. Sportivi che lottano e non tifosi che ululano il loro fallimento esistenziale.

 

     Si dice che abbiamo portato il calcio, anche il calcio, a Roma, ma questo da solo non ci caratterizza, non ci diversifica dagli altri, per il semplice fatto di averlo fatto prima, anzi ci può pericolosamente accomunare a quel modo di vivere che non amiamo. Tutte le squadre della parrocchietta, quelle nate richiamandosi al più bieco e ridicolo nazional provincialismo, hanno visto la luce in nome del calcio campanilistico. Per questo ritenerci i primi ad aver portato il calcio a Roma, può essere considerato quasi un delitto per un laziale, se si nascondono, si sottacciono, gli ideali che ci videro nascere, ben più importanti della disciplina di un singolo sport. Dire di aver portato il calcio a Roma e sottocere il resto sarebbe come descrivere la grandezza di Cesare, che grande sicuramente lo fu,  perché grande fu la sua corona di alloro. Argomenti da tifoso di una squadra di calcio della parrocchietta appunto, non da laziale, che sa tanto peperonista nazional popolare. Noi non siamo come gli altri e la nostra storia  non ci differenzia dagli altri perché siamo arrivati prima ma perché lo abbiamo fatto con un sogno grandioso in totale contrapposizione a coloro che sono arrivati dopo. Chiarisco meglio per combattere quella metodica, devastante, maniera di pensare che ci può fare tanto simili a coloro che combattiamo. Premiare qualcuno con un premio lazialità per aver giocato bene a calcio, e sul campo difeso i colori della nostra squadra, non fa di un giocatore pur bravo un laziale vero, altrimenti dovremmo pensare che se un tal Francesco avesse scelto i nostri colori, sarebbe stato un grande laziale, solo perché sapeva giocare bene a pallone. Io credo che il Francesco di cui sopra è, al contrario, un grande esponente di quel calcio nazional provinciale che sa irridere gli avversari sconfitti, li prende a sputi e a calci in testa dopo averli, con un calcio ben assestato gettati a terra. È per questo un grande interprete peperonista osannato dai suoi tifosi,  ma è proprio per questi motivi che non sarebbe mai potuto essere un laziale, anche se avesse fatto vincere alla nostra squadra degli scudetti. Ovviamente essere in una radio”laziale” e parlare, meglio sproloquiare di calcio e tecniche legate a quella disciplina a lungo andare ti può far assomigliare ai tuoi  nemici peperonisti. Comprendete l’assurdità e la pericolosità di certi sragionamenti radiofonici?

    Mi ripeto per chi ha problemi a comprendere. Aver portato il calcio a Roma può essere motivo di ulteriore vanto avendo però ben presente che la grandezza dello stupendo sogno laziale sta nell’aver  portato lo spirito olimpico a Roma. Noi non siamo grandi per essere nati 27 anni prima di altri ma per essere stati i primi in Italia ad aver dato vita al sogno olimpico, dello sport universale che affratella i popoli e fa cessare le guerre, e di averlo fatto, a maggior gloria di chi ci fece nascere, in un’epoca buia e piena di vuota, ma non per questa meno pericolosa, retorica nazionalista. C’è, come detto, qualcuno che, con la successiva  nascita della Società Sportiva Lazio, che di quella storia stupenda è comunque la continuazione a pieno titolo, queste cose se le è scordate, o ha voluto scordarle, sarà bene che se le rammenti, perchè si è laziali per un modo di essere,  per uno stato dell’anima, per una scelta di vita, o si è altro, magari lontani cugini, che con la storia dei nostri padri non c’entreranno mai nulla.

                                                                  Decimo